UN DELFINO TRA LE ROCCE DI FELTRE

Ciao a tutti!! Dopo tanto tempo ritorno qui per raccontarvi qualcosa, qualcosa di diverso, di speciale. Si, perchè oggi (e sono molto orgoglioso nel farlo) vi parlerò di una scoperta che ho fatto anni fa nelle immediate vicinanze di Feltre e che si è rivelata essere niente meno che un cranio incompleto di Kentriodon! Una parola che ai più risulterà strana, la quale, sta ad indicare un genere di odontoceti oggi estinti. Lo studio è stato fatto recentemente, in collaborazione tra professori e ricercatori dei dipartimenti di scienze della Terra dell’Università di Pisa e di Padova, portando a dei risultati molto interessanti che di seguito vi narrerò. Ma partiamo dalle “origini”.

Molti anni fa, ero solito frequentare assiduamente un luogo vicino a Cart, che è un piccolo paesino situato su una collina a nord-est di Feltre. Questo posto, non è nient’altro che una cava utilizzata per l’estrazione di materiale che serve a creare laterizi. Lo so che magari una cava, non può sembrare a prima vista un locus amenus, ma vi posso assicurare che se capitate nella cava “giusta”, i vostri occhi saranno catturati da altre particolarità, che esulano dalla bellezza del paesaggio circostante. Le particolarità, in questi casi, non sono altro che i fossili nascosti tra le rocce. Tornando alla cava di Cart, si può dire che di fossili ne custodisca abbastanza da renderla molto interessante. Ho passato molti anni a scrutare tra quelle rocce che sono marne e arenarie, di volta in volta mi si presentavano fossili di diversa natura; dai denti di squalo ai pettinidi ( le conchiglie fatte come le capesante), dai resti di vegetali a piccole vertebre di pesce. Trovavo però anche ossa più grandi, appartenenti a mammiferi marini, dell’infraordine dei Cetacei. Si, avete capito bene! Sotto i miei piedi comparivano quelle che si possono facilmente identificare come vertebre, a volte di qualche centimetro, a volte grandi come un pugno, oppure più raramente grandi come il palmo di una mano. Oltre alle vertebre però, notavo altri frammenti, di costole ad esempio e… di “cose” dall’aspetto irregolare, inizialmente per me di difficile identificazione. Le interpretavo solamente come “ossa generiche”, le quali, facevano capolino dalle marne degradate dagli agenti atmosferici, tuttavia, mi ricordo che non di rado vedevo tutti questi frammenti raggruppati tra di loro, come se mi stessero fornendo un indizio, una chiave per la risoluzione di quello che era a tutti gli effetti un enigma. C’è da dire, che la maggior parte di questi insiemi caotici, presentavano una “ridotta capacità di coesione”, cioè, se provavo a ricomporre il puzzle preistorico, trovavo connessioni solo tra pochissimi frammenti e dunque ancora non capivo il segreto che mi volevano nascondere. Ma un giorno le cose cambiarono radicalmente, infatti mi sono imbattuto in un insieme di pezzi più grandi, che si ricomponevano perfettamente, intendiamoci, non si tratta comunque di ritrovamenti comuni. altro non erano che le ossa di un cranio, seppur incompleto, di un cetaceo. Durante gli anni di frequentazione della cava, ho trovato solo sette crani e per citare impropriamente Joe Satriani, la ridente collina di Cart non sarà la hill of the skulls (la collina dei teschi), ma io credo che si possa definire la collina delle scoperte! In questo racconto ci concentreremo in particolare sul piccolo e incompleto cranio che ho nominato all’inizio, incompleto si, ma non abbastanza da non poterlo riconoscere e studiare. A differenza degli altri sei, questo ha una colorazione rossastra, dovuta agli ossidi presenti in alcuni livelli della formazione rocciosa che lo inglobava.

A questo punto è necessario fare un piccolo inquadramento geologico, se vi ricordate, in altri articoli (come qui), avevo parlato delle rocce nelle quali sono contenuti i fossili di cetacei e avevo detto che erano marne (composte più o meno dal 50% di argilla e dal 50% di calcare) e arenarie. Nella cava affiorano per lo più marne, ma anche livelli di arenarie, marne e arenarie che hanno un nome: Marna di Bolago e Arenaria di Libàno. I nomi derivano dalle località dove per la prima volta sono state individuate e studiate. Per fare una precisazione, devo dire che nel colle, l’Arenaria di Libàno, ha una litologia diversa rispetto a quella che si trova nei d’intorni di Libàno appunto, infatti, se li possiamo vedere un’arenaria vera e propria, a Cart si presenta come una marna inclusa tra due livelli di arenaria glauconitica (contenete cioè, glauconite, un minerale che conferisce un bel colore verde scuro alla roccia). Dal punto di vista stratigrafico, l’Arenaria di Libàno si trova appena sotto la marna di Bolago e questo ci dice che è leggermente più vecchia, possiamo affermare però, che tutte e due appartengono al Miocene, la prima epoca del periodo Neogene, che a sua volta è il secondo periodo dell’era Cenozoica. Vi ho un po’ confuso vero? Beh, per complicarvi ulteriormente la vita devo scendere ancora di più nello specifico. Infatti, le epoche si possono suddividere a loro volta (proprio come una matrioska) in quelli che vengono chiamati stadi o piani; bene, nel nostro caso l’Arenaria di Libàno appartiene al piano Aquitaniano, il primo e più antico dei sei stadi del Miocene, mentre la Marna di Bolago fa parte dello stadio Burdigaliano, rispettivamente il secondo dei sei. Una delle discipline che ci viene in aiuto per poter creare queste suddivisioni è senz’altro la Paleontologia, la quale, attraverso lo studio dei fossili e dell’analisi della comparsa o scomparsa lungo la colonna stratigrafica di generi e specie, ci permette di capire quale sia stato il prima e quale il dopo. Un’altra disciplina molto utile, direi fondamentale, per conoscere i tempi geologici è la Geochimica. Essa si occupa del mondo atomico e con un metodo chiamato datazione radiometrica, è possibile stabilire, seppur con un piccolo margine di errore, l’età di una roccia. Così sappiamo che l’Aquitaniano ha un ‘età compresa tra 23.03 e 20.43 milioni di anni, mentre il Burdigaliano si colloca tra i 20.43 e i 15.97 milioni di anni. Le rocce sono una fonte inesauribile di informazioni, ad esempio sappiamo che le due formazioni sopracitate, si sono depositate in un ambiente subacqueo e i fossili, sia micro che macro, sono una diretta testimonianza di questo, vi troviamo sia conchiglie sia ossa di altri organismi che vivevano in mare. Ma oltre ai fossili di tanto in tanto si possono scorgere delle strutture sedimentarie, che sono appunto delle caratteristiche sedimentologiche, le quali, ci portano a capire in che particolare ambiente il sedimento, ora roccia, si sia depositato. Le rocce sedimentarie sono composte da dei granelli detti clasti e prima che si trasformassero in roccia solida, erano ovviamente soggetti al flusso delle correnti. Queste correnti, a seconda della loro forza, della loro natura e della loro direzione, facevano si che tutti i granelli si disponessero sul fondo in determinati modi; esattamente come succede al giorno d’oggi con la sabbia che vediamo al mare. Una delle strutture sedimentarie più comuni è la stratificazione incrociata, con strati che presentano un diverso grado di inclinazione rispetto al piano orizzontale, è frequente nei depositi fluviali ed è frequente all’interno dell’Arenaria di Libàno (più in quella bellunese però). Se ne può dedurre dunque, che si sia depositata in un ambiente fluviale, ma ci sono anche altre strutture che ci permettono di inquadrare meglio l’ambiente di deposizione e senza scendere nel dettaglio, ci dicono che era una zona di delta fluviale. Invece, la Marna di Bolago, che ricordiamolo è appena più “giovane”, è fatta da granelli piccolissimi impossibili da vedere ad occhio nudo, inoltre le strutture sedimentarie qui sono quasi del tutto assenti. Si è depositata in un ambiente marino più profondo, dove onde e correnti non avevano una grande influenza sul sedimento e dove anche i clasti più piccoli potevano adagiarsi con tranquillità senza essere spazzati via. Un ambiente detto di piattaforma esterna. La nostra zona all’epoca, si trovava ai piedi della catena Alpina che pian piano stava emergendo dal mare, i corsi d’acqua che scendevano da quelle montagne andavano a buttarsi nel mare antistante, trasportando tutti quei sedimenti che avrebbero costituito le due formazioni rocciose di cui abbiamo parlato, ma anche altre, più o meno della stessa età. Uno di questi corsi d’acqua era un fiume la cui foce si trovava nei dintorni di Belluno. Come è intuibile, l’Italia al tempo non era proprio come adesso, le ricostruzioni paleogeografiche ci mostrano una catena Alpina completamente circondata dal mare e una neonata catena Appenninica spostata molto più a ovest nel mar Mediterraneo, rispetto ad oggi. In pratica, la nostra penisola non era ancora del tutto unita (geologicamente parlando:)) e il clima era di tipo subtropicale.

Adesso facciamo un bel salto temporale e torniamo ai giorni nostri. Dovete sapere che non avrei mai potuto raccontarvi questa storia se non avessi conosciuto alcune persone rivelatesi fondamentali per il raggiungimento di questo traguardo. I miei più sentiti ringraziamenti vanno a Pino Carone, il quale mi ha messo in contatto con Giovanni Bianucci, professore di Paleontologia e Paleoecologia dell’Università di Pisa, al professor Giovanni Bianucci stesso, a Francesco Nobile e Alberto Collareta, ricercatori sempre presso l’Università di Pisa e con i quali ho condiviso diverse uscite sul sito del ritrovamento ed eseguito campionamenti di rocce. Ancora, ringrazio la professoressa Eliana Fornaciari e il professor Luca Giusberti, rispettivamente docenti di Micropaleontologia e Paleontologia al dipartimento di Scienze Geologiche dell’università di Padova. Infine, ringrazio Tiziana Casagrande, conservatrice del Museo Civico Archeologico di Feltre, dove ho avuto la possibilità di depositare i reperti e l’amico Enrico Scariot per le foto preliminari del reperto. Una volta che i reperti sono stati depositati è stato possibile iniziare a studiarli. Posiamo ora la nostra attenzione sul protagonista di questo racconto, il Kentriodon. Come ho accennato in precedenza, questo genere, trovato all’interno della Marna di Bolago, appartiene all’infraordine dei Delphinida, che al giorno d’oggi rappresenta il più diversificato clade esistente di cetacei. Questo clade si è originato nel tardo Oligocene (epoca appena precedente al Miocene) e proprio durante il primo Miocene si è diversificato, il genere Kentriodon appartiene alla famiglia Kentriodontidae ed era diffuso nel primo Miocene. La sistematica dei Kentriodontidae è controversa, infatti, se alcuni decenni fa, questo nome era usato per includere la maggior parte dei generi estinti di delfini che non rientrano nelle famiglie esistenti, recenti analisi filogenetiche hanno rilevato che questo gruppo (Kentriodontidae sensu latu) rappresenta un insieme artificiale e polifiletico di delfini arcaici. Dunque, Kentriodontidae è stato successivamente ridefinito (Kentriodontidae sensu stricto) e limitato per includere il genere tipo Kentriodon e alcuni altri generi strettamente correlati. L’approccio filogenetico proposto da Lambert et al., seguito in questo studio, è quello secondo il quale la famiglia Kentriodontidae è ristretta al genere Kentriodon e Rudicetus. Ora, senza entrare nello specifico, bisogna parlare un po’ di come sia effettivamente fatto questo cranio, di quali siano le sue caratteristiche, insomma, di tutti quegli aspetti che fanno di questo reperto il genere soprannominato. Per farlo però, devo necessariamente tediarvi con alcuni cenni di osteologia dei cetacei, sarà una cosa un po’ noiosa ma fondamentale. Allora, iniziamo dicendo che i crani si possono osservare da un punto di vista dorsale (da sopra), ventrale (da sotto) e laterale; a seconda di come li si guarda potremo scorgere ossa diverse. In visione dorsale, ma anche da altre angolazioni in questo caso, un cranio di delfino ha una forma allungata, a “becco”, la prominenza si chiama rostro ed è composto da ossa mascellari premascellari. Si nota che i premascellari sono più interni e sono appunto circondati dai mascellari. Proprio al centro del rostro (e qua si che serve essere in visione dorsale), c’è un solco che lo percorre per quasi tutta la sua lunghezza, si chiama solco mesorostrale, esso è più pronunciato al suo inizio. Come potete vedere anche dalle foto di questo reperto, il rostro dall’apice fino alla sua base, si allarga sempre di più fino a che i mascellari si sviluppano molto in larghezza, il punto esatto in cui questo avviene prende il nome di fossa antororbitale. A lato delle fosse troviamo i processi antororbitali e sopra di essi ci sono le ossa frontali, dotate di processi preorbitali postorbitali, come suggeriscono i nomi, al di sotto di queste ossa si trova la cavità oculare. Esistono poi una serie di solchi, come ad esempio, il solco anteromediale, quello posteromediale e il posterolaterale, ma anche di foramina. Restando sempre in visione dorsale, circa al centro del cranio ci sono le ossa nasali, dalla forma peculiare, mentre immediatamente dietro di esse vanno a collocarsi le due ossa frontali, che a loro volta sono seguite dalle ossa sopraoccipitali. In visione ventrale, lungo le mascellari si trovano gli alveoli,  una fila di piccoli buchi che hanno la funzione di ospitare le radici dei denti e nella parte centrale vediamo le ossa palatali, lateralmente le lacrimali. Sia in visione ventrale che laterale si fanno notare le ossa basoccipitali ed exoccipitali (che costituiscono la parte posteriore del cranio) oltre che i processi squamosi. Al centro degli occipitali c’è il foramen magnum, il foro dove passa il midollo spinale e circondato dai condili occipitali, due ossa che servono per l’inserzione della prima vertebra cervicale. Importantissime ai fini dell’identificazione, sono altresì le ossa dell’apparato uditivo, composte da periotico, bullaincudinestaffa martello; solitamente si trovano separate dal cranio, perchè non sono connesse direttamente a quest’ultimo e se le guardiamo da vicino, ci appariranno solchi, protuberanze e piccole depressioni. Ovviamente tutte queste strutture hanno un nome specifico, ma in questa sede non andremo ad analizzarle, sono infatti molte e il nostro racconto si trasformerebbe in un trattato di anatomia :).

Fatta questa doverosa introduzione, mettiamo ora il Kentriodon sotto la lente d’ingrandimento. Come già vi ho detto in precedenza, non è completo, manca praticamente tutta la parte posteriore, fortunatamente però, le parti che abbiamo si sono conservate abbastanza bene. Il reperto, (denominato MCAF-MB2), è stato confrontato con altre specie di Kentriodon, con le quali ovviamente presenta diverse affinità, ad esempio il rostro è largo, dorsalmente appiattito alla base e anteriormente bruscamente rastremato; come nella maggior parte delle specie di Kentriodon, MCAF-MB2 mostra una larghezza preorbitale più piccola e alveoli piccoli. Le affinità con K. pernix sono notevoli, avendo la fossa anterorbitale destra a forma di V, forami premascellari e forami infraorbitali dorsali situati leggermente dietro la base del rostro, una cresta mascellare bassa, un margine orbitale del processo sopraorbitale concavo e un tetto sottile dell’orbita. Ci sono anche delle differenze con questa specie, poichè il cranio della cava di Cart ha dimensioni maggiori, il forame infraorbitale ventrale più piccolo, il margine posterolaterale del rostro più robusto e gli alveoli ancora più piccoli. Differisce anche da K. “obscurus”, in quanto i processi del frontale sono coperti dorsalmente dalla mascella, poi si nota che le fosse del seno pterigoideo sono arrotondate piuttosto che triangolari e non si estendono anteriormente oltre il livello della fossa anterorbitale. queste caratteristiche di MCAF-MB2, sono presenti anche in K. hobetsu, K. schneideri e K. sugawarai, ma non in K. diusinus e K. nakajimaiK. hobetsu, condivide con il nostro cranio, uin’ampia esposizione mediale dei mascellari lungo il margine delle narici esterne, caratteristica assente in tutte le altre specie di KentriodonK. schneideri, invece, presenta delle differenze sia per quanto riguarda le dimensioni (è più grande) sia perchè ha una debole costrizione dell’apertura dorsale del solco mesorostrale, inoltre, i suoi forami premascellari sono in posizione più avanzata mentre le fosse anterorbitali sono più larghe e a forma di U e gli alveoli sono mediamente più grandi. Come in tutti i delfinidi, la bulla timpanica di MCAF-MB2 ha un solco posterodorsale dell’involucro, proprio quest’ultimo presenta un’espansione anteriore che va a formare un margine mediale debolmente concavo e un margine ventrale ancora leggermente concavo. Il martello ha un processo muscolare ben sviluppato, situato più dorsalmente rispetto al manubrio, queste caratteristiche non si trovano né in K. pernix né in K. sugawarai. Dai precedenti confronti, se ne deduce che MCAF-MB2 possiede un mosaico di caratteri presenti in varie specie di Kentriodon, ma uno in particolare, non riscontrato negli altri, rappresenta una peculiarità di questo fossile. Infatti, c’è un’articolazione tra la faccetta anteriore della bulla e la faccetta anteriore del periotico. Alla luce di questo, il nostro potrebbe appartenere ad una specie non ancora descritta, ma essendo incompleto si è ritenuto opportuno denominarlo solo Kentriodon sp. (l’abbreviazione sp. si mette quando non si è sicuri a quale specie appartenga).Questo esemplare fossile è la prima testimonianza inequivocabile di Kentriodon in Europa, così come dell’intera regione protomediterranea (il Mediterraneo primitivo), il che porta ad evidenziare ulteriormente l’ampia distribuzione geografica di questo genere. le ragioni alla base di una così ampia distribuzione, possono derivare dalle probabili preferenze verso il mare aperto di questo organismo, come del resto succede per la maggior parte dei delfini attuali. Le considerazioni di cui sopra, suggeriscono che le capacità di dispersione del Kentriodon erano molto superiori a quelle di altri delfinoidi del Miocene Inferiore e Medio, incluso lo Squalodon che probabilmente era abituato ad ambienti più vicini alla costa o persino salmastri. Ricordiamo a tal proposito che all’interno dell’Arenaria di Libàno, sono stati trovati molti resti di Squalodon. Le analisi micropaleontologiche assegnano il nostro reperto ad un intervallo di tempo che va da 20.44 a 19.01 milioni di anni fa; c’è da dire che solamente K. pernix, che proviene dalla Formazione Calvert del Maryland (U.S.A.), si sovrappone parzialmente, in termini di età geologica stimata, con MCAF-MB2, mentre tutti gli altri sono più giovani (notare l’immagine a fianco). Dunque, proprio MCAF-MB2 è il più antico Kentriodon al mondo finora scoperto!

Siamo giunti alla fine del racconto, ma siamo ancora all’inizio di quella che si può definire a tutti gli effetti un’avventura, infatti vi anticipo già che in futuro ci saranno altre importanti novità. Come si dice, ci rivedremo su questi schermi :).

Ecco il link dell’articolo “vero”: https://www.mdpi.com/2079-7737/13/2/114/pdf

 

La foto in copertina è stata fatta da Mattia Curto, utilizzando un drone DJI Mavic Air 2.

 

BIBLIOGRAFIA:

Nobile, F.; Collareta, A.; Perenzin, V.; Fornaciari, E.; Giusberti, L.: Bianucci, G. Dawn of the Delphinidans: New Remains of Kentriodon from Lower Miocene of Italy Shed Light on the Early Radiation of the most Diverse Extant Cetacean Clade. Biology 2024, 13, 114. https://doi.org/10.3390/biology13020114.

Cason, C.; Grandesso, P.; Massari, F.; Stefani, C. Depositi deltizi nella molassa cattiano-burdigaliana del bellunese. Memorie di Scienze Geologiche 1981, vol. 34, pp 325-354.

 

 

Pubblicato da Vittore Perenzin

Geologo e appassionato di fossili e minerali.

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